DOLCI NON DOLCI – Vini davvero speciali

Ricordo che Luigi Veronelli, in tema di vini grande scopritore di piccoli tesori nascosti, definiva alcuni italici nettari da dessert “dolci non dolci”, un’espressione in qualche modo geniale e anticipatrice, che ancora oggi ci offre preziosi spunti di riflessione. Il senso di quella sua definizione era probabilmente che quei vini, certamente dotati di un residuo zuccherino più o meno cospicuo, erano caratterizzati  non tanto dalla dolcezza in se, quanto dal suo modo di manifestarsi in calibrato equilibrio con altre componenti, a partire da acidità, sapidità, eventuali note amaricanti, struttura  e deliziosi aromi di bocca. Il messaggio è chiaro: la dolcezza di un vino, se pure è utilizzata per definirlo, non basta a  delinearne le caratteristiche e, tanto meno, a garantirne piacevolezza e qualità. Anzi, se eccessiva,  goffamente predominante o malamente soverchiante, può rendere il vino mellifluo, piatto e banale, privandolo della giusta energia, dei vitali contrasti e dell’eleganza delle proporzioni. La lezione di Veronelli, insomma, ci insegna che parlare di vini dolci rischia di  essere riduttivo, anche perché i migliori vini appartenenti a tale tipologia più propriamente potrebbero essere definiti “dolci non dolci”.

Vini davvero speciali

Tali sono la competenza, la dedizione, la tenacia e la perizia necessari per realizzare queste perle rare, da giustificarne i costi elevati, anche se difficilmente remunerativi e la produzione limitata, destinata a pochi fortunati. Si tratta nei casi migliori di piccoli capolavori, sognati in progetti ambiziosi ma difficili da portare a compimento. Ogni passaggio è attentamente studiato e messo a punto: il suolo, la cultivar, la vigna, l’uva, l’epoca della raccolta e la lavorazione successiva.  Eppure una tale fatica certosina può essere vanificata in poco tempo dai capricci, dalle bizzarrie e dalle avversità del clima, sicché occorre anche aspettare la complicità dell’annata giusta, pazientemente quasi con testardaggine, senza mai arrendersi, sfiduciarsi o gettare la spugna.  

Va da se che i più grandi vini “dolci non dolci” sono davvero difficili da produrre, nascono quindi per sfida, per il desiderio di superarsi, per l’ambizione di catturare nel bicchiere il meglio di uve pregiate e l’essenza di un particolare luogo, ma anche per la nostalgia di un passato nel quale questi nettari erano rinomati e custoditi gelosamente per trarne salute e vigore o per essere condivisi in occasioni particolari.

Anche la Puglia, crocevia di genti, di navigatori e di mercanti, ha imparato nei millenni ad amare questi vini pervasi da profumi d’Oriente e a produrli in ogni angolo del suo variegato territorio.

Moscato reale, moscatello selvatico, fiano, malvasia bianca e nera, aleatico, primitivo, negroamaro, nero di Troia e, più recentemente, chardonnay, sauvignon blanc, semillon e riesling renano si sono lasciati plasmare da mani sapienti costituendo una sorta di ideale tastiera a disposizione degli addetti ai lavori.

Vini da meditazione

Sempre a Luigi Veronelli si deve un’altra definizione felicissima di questi vini, che egli diceva “da meditazione”. Anche qui un’intuizione anticipatrice, quella di liberare queste singolari espressioni dell’arte enoica da abbinamenti più o meno vincolanti e comunque riduttivi e limitanti. Come a dire, questi nettari si centellinano primariamente per il puro piacere di sperimentarne la bellezza, così come si gusta un brano musicale, una scultura, un dipinto, un libro, un film, un balletto o un’opera teatrale. Sono vini che ci fanno compagnia, che si accordano ai nostri pensieri e sentimenti, che evocano e danno sfogo alle nostre emozioni, che ci aiutano a rilassarci e a fare ricreazione, nel senso etimologico del termine. Sono vini che degustiamo  quando ci pare e che, se vogliamo, condividiamo con persone amate o comunque gradevoli. Confinarli alla rituale scansione di uno stanco fine pasto, dopo una pantagruelica serie di portate e di vini, significa a volte relegarli in un angolo privo di luce, soffocarne la voce nel chiasso, mettere la sordina alla loro capacità evocativa, condannandoli inesorabilmente all’insignificanza, alla decadenza e all’oblio. A meno che non si tratti di uno studiato percorso fatto di piccoli assaggi e di connubi stimolanti.

Al di là di inutili forzature e di convenzioni obsolete e limitanti, l’idea è quella di sorseggiare questi nettari quando ne abbiamo voglia, poco importa dove e in un rapporto molto più libero e creativo col cibo rispetto al passato.

Pochi ma eccelsi

Nel contesto della nostra regione, ma direi anche nel panorama enoico mondiale, si avverte una certa disaffezione nei confronti dei cosiddetti vini dolci. A parte le ovvie considerazioni legate alle mode, ai corsi e ricorsi delle preferenze enoiche, alle alterne vicende dell’economia e alle nefaste influenze delle pandemie, si tratta di una contingenza storica che potrà essere superata solo riscoprendo, ridisegnando e ricollocando questa tipologia di vini. Anche ripensando ai destinatari di un prodotto che, per forza di cose, dovrebbe mirare a un posizionamento elevato, in quella fascia che in passato si chiamava dei vini di lusso.  Sarà l’occasione forse anche per liberarci di alcune interpretazioni dei vini dolci un po’ troppo scontate, stanche, mediocri o banali e per puntare più in alto e al meglio. Si sfoltirà probabilmente il numero, peraltro già non vastissimo delle etichette,  si ridurranno i formati e le tirature saranno per forza di cose limitate. Ma chiederemo ai produttori e agli addetti ai lavori che vorranno mettersi in gioco di creare vini autentici e preziosi, piccoli gioielli capaci di raccontarci qualcosa della terra generosa da cui provengono e del lavoro di chi li ha fatti, scatenando grandi emozioni ed esperienze organolettiche uniche.

Giuseppe Baldassarre